domenica 26 settembre 2021

Recensione: "Black Water Sister", di Zen Cho

Black Water Sister” è il nuovo urban fantasy di Zen Cho, già autrice della duologia “Sorcerer to the Crown + “The True Queen”, nonché del notevole romanzo wuxia “The Order of the Pure Moon Reflected inWater”.

Black Water Sister” vanta una variopinta ambientazione asiatico-contemporanea e un nucleo di tematiche altamente significative; è un libro divertente, eccentrico e colorato, che giustappone la sensibilità e il materialismo (tutto occidentale) di una protagonista nata e cresciuta negli USA, al folclore e allo spiritualismo malesiano.

Un fantasy singolare e potenzialmente irresistibile, che a tratti ricorda “The Ghost Bride” di Yangsze Choo; purtroppo, la trama sconnessa e i personaggi da light novel tendono a guastare l’effetto di insieme, rendendo l’esperienza di lettura gradevole, forse addirittura pittoresca, ma tutt’altro che indimenticabile...


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La trama

Jessamyn Teoh si è sempre considerata americana; eppure, quando suo padre perde il lavoro a seguito di una grave malattia, viene costretta a tornare in Malesia assieme al resto della sua famiglia.

Jess non ha mai vissuto in Malesia, neanche per un giorno. Non conosce quasi nulla delle tradizioni locali, e meno ancora di quelle relative al suo stesso albero genealogico. Così, quando comincia a sentire una voce che le parla all’orecchio, attribuisce la cosa allo stress e si mette subito alla ricerca di un terapeuta.

Dopotutto, è una laureata di Harvard senza uno straccio di prospettiva, esiliata in una terra “straniera” a un paio di pianeti di distanza dalla sua ragazza, dai suoi amici, dal mondo che conosceva.

Chi è che non ne uscirebbe con i nervi un tantino logorati?

Tutto cambia, quando lo spirito con cui è entrata in comunicazione si rivela appartenere ad Ah Ma, la nonna materna che non ha mai veramente conosciuto. In vita, Ah Ma era una potentissima medium, l’avatar di una misteriosa divinità chiamata “Black Water Sister”.

Adesso, Ah Ma è più che mai determinata a pareggiare i conti con il boss della malavita locale, colpevole di aver arrecato un’offesa mortale alla sua dea – e, per qualche ragione, pare proprio che non possa riuscirci senza l’aiuto di Jess!

Attirata in un mondo di fantasmi, divinità e oscuri segreti di famiglia, Jess scoprirà che stringere accordi con uno spirito capriccioso potrebbe rivelarsi più pericoloso del previsto. Anche perché la “Black Water Sister” di cui parla Ah Ma è molto, molto arrabbiata... e, se Jess dovesse fallire, la sua prossima vittima potrebbe essere qualcuno che le è molto caro.


Genitori, zii, cugini e tanti guai!

Ci tengo a precisare che “Black Water Sister” è un libro che la stragrande maggioranza del pubblico (e della critica) ha amato profondamente.

Per me non è stato così, ma la verità è che non so quanto di tutto questo sia da attribuire alla mia scarsa capacità di relazionarmi a quello che è l’effettivo tema portante di quest’opera: vale a dire la famiglia, nel senso più biologico ed esteso del termine.

In realtà, l’opera di Zen Cho affronta molti argomenti interessanti; quello dell’immigrazione è decisamente quello che mi ha colpito di più, dal momento che lo smarrimento di Jess, la sua dolorosa mancanza di una specifica identità culturale in cui riconoscersi, viene rappresentata dall’autrice con passione e un’ encomiabile dose di approfondimento psicologico.

Ma è un fatto che i riflettori restino puntati soprattutto sui rapporti famigliari. Tutta la vita di Jess in Malesia, in un certo senso, ruota attorno a questo enorme, chiassoso, “simpatico” serraglio di zii, cugini, parenti di terzo grado e ficcanaso vari ed eventuali.

Ora... I personaggi della madre, del padre e della nonna sono stupendi, non mi fraintendete. Ma il resto della banda?

Sarò sincera con voi: riferimenti alle varie esperienze LGBT a parte, per me non è stato sempre facile riuscire a stabilire un punto di connessione con la protagonista; trovare un modo per immedesimarmi nei suoi problemi, nei suoi dilemmi morali e nella sua visione della vita.

Parte del problema ha sicuramente a che fare con una questione di “gap” culturale. Dopotutto, come l’autrice si prende la briga di ricordarci, molte famiglie asiatiche allevano i propri figli in base a valori completamente diversi da quelli occidentali.

C’è anche da dire che il significato che attribuisco io alla parola “famiglia” ha poco a che fare con il DNA, e molto più a che vedere con la gente che effettivamente si prende cura di me e mi protegge le spalle. Ma, forse, questa modalità di pensiero è un lusso che posso concedermi soltanto perché non ho avuto la sfortuna di crescere in una terra diversa da quella dei miei antenati; dopotutto, nessuno ha mai cercato di sradicare me dalle mie radici. Posso scegliere di allontanarmene; posso crogiolarmi nella consapevolezza che saranno sempre lì: per ritrovarle mi basterebbe allungare una mano.

Perfino così, sarà sincera: ho trovato difficile comprendere i motivi che spingono Jess a vivere in preda al terrore costante di deludere questo clan di parenti che, a ben vedere, non sono altro che sconosciuti che per caso portano il suo stesso cognome; gente che si prende la briga di giudicare ogni sua azione e di pianificare la sua vita in ogni insignificante dettaglio, ma mai – il cielo ce ne scampi – di conoscerla per ciò che Jess realmente è.

Jess, dal canto suo, reagisce a tutte queste interferenze mostrando soltanto passività, pavidità e una vaga predisposizione al martirio... una serie di circostanze che, lo ammetto candidamente, purtroppo non mi hanno reso particolarmente bendisposta nei confronti del resto della sua storia.


Un arco spezzato

Dal punto di vista della trama vera e propria, trovo che “Black Water Sister” risenta di una grave mancanza di struttura.

Questo difetto, secondo me, va attribuito soprattutto all’arco narrativo della protagonista, che non arriva mai a svilupparsi in modo soddisfacente. La trasformazione di Jess, alla fine del libro, mi è parsa tutt’altro che convincente; una specie di parabola “a singhiozzi”, che si evolve a forza di scenari pittoreschi e incontri con personaggi sui generis, piuttosto che per mezzo di lezioni apprese e prove superate.

Oltretutto, non ho apprezzato particolarmente neanche la tendenza dell’autrice a ricorrere alla costante minaccia di violenza sessuale come espediente narrativo. Perché, detto fra voi e me, questo sarà anche uno stratagemma dolorosamente credibile... ma, nell’ambito di un libro a sfondo sovrannaturale, in realtà si traduce anche in un cliché pigro, la prima freccia nell’arco di un autore che non conosce il mondo che ha creato e che si rifiuta di fare i compiti a casa.

L’ambientazione, viceversa, è un elemento in cui “Black Water Sister” senz’altro eccelle. La Malesia dipinta da Zen Cho non mi è mai sembrata così vivida, problematica e interessante. Le sue descrizioni mi sono entrate sotto la pelle come le schegge di una cornice; un dipinto quadrimensionale, che è riuscito ad avvolgermi nelle sue luci, nei suoi profumi e nelle sue seducenti percezioni sensoriali.

Mentirei, se vi dicessi di non essermi aspettata un qualcosa di più. Ma suppongo che trarrò consolazione dal fatto di essermi imbattuta in una delusione parziale, e non integrale al 100%! XD




2 commenti:

  1. C'erano delle premesse davvero interessanti, peccato per lo sviluppo :/

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    Risposte
    1. Sì, è davvero un peccato! :(
      In realtà, non lo considero un brutto libro, tutt'altro... ma, secondo me, ha dei difetti in grado di renderlo poco appetitoso agli occhi di una larga fetta di pubblico, me compresa XD

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