“Bloodthirsty” è un film horror canadese incentrato su un “classico” caso di licantropia: in seguito a un ritiro musicale, una giovane cantante dall’indole mite e l’aria malinconica inizia a trasformarsi in una bestia affamata di sangue!
Una pellicola che è un po’ un concentrato di qualsiasi altro titolo dedicato all’argomento abbiate mai visto o letto; un po’ insipido, soprattutto nel finale, ma dotato di una solida atmosfera e di buone interpretazioni...
La trama
Grey Kessler (Lauren
Beatty) si sente un po’ in difficolta: dopo un esordio abbastanza
convincente sul palcoscenico della musica
alternativa indipendente, stenta a trovare l’ispirazione necessaria a
firmare il suo secondo album.
Le acque cominciano a smuoversi soltanto grazie all’incontro
fortuito con Vaughn Daniels (Greg Bryk),
un eccentrico ammiratore che le offre il proprio sostegno (economico e
spirituale) e che mette il suo piccolo studio
di registrazione a completa disposizione delle esigenze di Grey.
Insieme alla sua ragazza, la pittrice Charlie (Katharine King So), la cantante si
dirige quindi presso l’isolata magione
di Vaughn, determinata a trattenersi lì per qualche settimana.
Il suo obiettivo? Non lasciare quelle mura fino a quando il
suo nuovo album non sarà stato completato!
A poco a poco, però, i primi segnali di un’allarmante,
incredibile trasformazione cominciano
a manifestarsi in Grey...
Sogni pieni di violenza.
Disturbi dell’umore. Allucinazioni.
Una morbosa fascinazione nei confronti della carne cruda.
Riuscirà la ragazza a sfuggire alla maledizione che sembra aleggiare su tutte le giovani “protette”
cadute sotto le grinfie del misterioso e ambiguo Vaughn?
Una metamorfosi imperfetta
Dal mio punto di vista, “Bloodthirsty”
si è rivelato un film piacevole, a
tratti perfino intrigante... almeno
per i primi trenta minuti, o giù di
lì. Nulla di più, nulla di meno.
Il film diretto da Amelia Moses ha un intreccio estremamente
lineare (anzi, direi addirittura prevedibile),
ma, almeno per un po’, la pellicola riesce a compensare la mancanza di colpi di
scena o complicazioni inaspettate soprattutto grazie alla morbosità della sua atmosfera, a quello strisciante senso di
inquietudine&dannazione incombente che sembra aleggiare su tutti i
personaggi.
In realtà, “Bloodthirsty”
è una di quelle piccole, discrete pellicole indipendenti che cercano di
sfruttare il concetto di “slow burn”
fino all’estremo; e credo che il 90% del successo di questa formula, nel caso
in questione, vada attribuito all’ottima
interpretazione di Greg Bryk.
Con i suoi modi pacati, le movenze ferine e i sorrisi
ambigui, l’attore di “Channel Zero” e “The Wilds” riesce infatti a tenere alta la soglia di attenzione perfino nei
momenti di staticità più vistosa, dal momento che lo spettatore non sa mai bene
cosa aspettarsi dal suo personaggio.
La caratterizzazione di
Grey, d’altro canto, mi ha convinto infinitamente meno. L’ho trovata scialba, noiosa,
assurdamente passiva.
Peggio ancora: il suo arco
narrativo comincia nel vuoto, e non sembra finire da nessuna parte!
La sceneggiatura
di “Bloodthirsty”, tenete presente, azzarda
numerosi riferimenti e traccia inequivocabili parallelismi con pellicole come “Il Cigno Nero” di Darren Aronofsky. Un un termine di paragone che, ovviamente, finisce
con il giocare a suo sfavore: un po’ perché il materiale di partenza è
infarcito di cliché, un po’ perché
la regia manca di personalità... e
un po’ perché Lauren Beatty, diciamolo, non è esattamente Natalie Portman!
Tutto canzoni (sfiatate) e niente ululati!
In termini di rappresentazione
LGBT, del resto, il film di Moses dimostra sicuramente di avere una marcia
in più.
Fra l’altro, “Bloodthirsty”
è il terzo
film horror dotato di coppia f/f “centrale” che mi sia capito di vedere quest’anno
(dopo “New Mutants” e la trilogia di “Fear Street”), un “trend”
che, ovviamente, non posso fare a meno di approvare (soprattutto quando la
relazione fra le due protagoniste viene gestita in maniera così naturale e
convincente, come in questo caso).
Ritengo che alcuni aspetti del film, viceversa, avrebbero
avuto bisogno di un pizzico di considerazione in più.
Il rapporto fra Grey e il suo mentore Vaughn, ad esempio, comincia a svilupparsi in maniera interessante, ma dopo un po’ comincia a prendere una piega stereotipata; tempo di arrivare al finale, e vedrete che a nessuno fregherà più nulla dei loro “appassionati” discorsi sul senso della vita, degli istinti primordiali e del talento musicale.
Il che apre un’altra parentesi dolorosa, a parer mio, dal momento che un’approfondita e appassionata esplorazione del binomio musica/licantropia (in un senso più esteso, della relazione a doppio filo fra arte e malattia mentale...) avrebbe potuto facilmente elevare “Bloodthirsty” al rango di piccola gemma.
O, quantomeno, contribuire a rendere il film un tantino più unico
e memorabile.
Il finale,
invece, finisce per trasformarsi nella consueta orgia di sangue; fra effetti speciali dal sapore un po’ grunge, in stile “Buffy: L’Ammazzampiri”, e dolci e innocenti personaggi che se ne
vanno in giro con un bersaglio
praticamente attaccato alla schiena.
“Per realizzare un
climax dal taglio particolarmente tragico, colpire dritto qui e aspettare che
al pubblico si spezzi il cuore.”
Se bastasse seguire una manica
di istruzioni da manuale di scuola del cinema per realizzare un ottimo
horror, forse il film di Moses sarebbe un capolavoro!
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